Colazione a Mostar: tè alla mela e pensieri vaganti

Buongiorno, Mostar. Questa la mia vista al mattino mentre mi bevo il mio tè alla mela e ciliegia- ho trovato un validissimo sostituto dell'Estathé, meno male!-, controllo le mail e carico le prime foto della giornata. 


Una vista che, anche se triste, sprizza storia da tutte le parti. I segni, quelli evidenti, raccontano un fatto realmente accaduto, in un tempo relativamente vicino a noi, anche se per molti 22 anni sono quasi un secolo fa. Eppure quel maledetto 1993 è ancora un fantasma che vaga alle nostre spalle, un'ombra pesante che vuol fare sentire la sua presenza, pur restando nascosta. I segni sui muri mezzi distrutti dalle bombe non sono semplici buchi su pareti che andrebbero ristrutturate o demolite. Sono i buchi in testa, nel corpo, nelle braccia e nelle gambe di chi, la guerra dei Balcani, l'ha vissuta. Di chi, quel giorno, ha visto la propria fine o quella della propria famiglia.


Padri straziati dal dolore, bambini rimasti orfani prima ancora di imparare a pronunciare la parola "mamma", anziani che si sono visti portare via anche la dignità, non solo la casa, gli averi, il credo politico e la religione. Non c'era scampo per nessuno, neanche per i ragazzini che correvano a più non posso tra le macerie in cerca di un pezzo di pane da rubare da qualche casa ormai distrutta. Ne andava della loro cena: senza cibo e acqua avrebbero saltato il pasto. E chissà se l'indomani avrebbero ancora avuto la possibilità di farne uno.


I soldati non guardavano in faccia nessuno. Chissenefrega se eri solo un 12enne spensierato. Eri musulmano. Dovevi morire. Facevi parte della minoranza, vivevi "dall'altra parte del ponte" (il Ponte Vecchio, lo Stari Most), dovevi essere eliminato. Come gli ebrei. Ironia della sorte, continuano a dire che non si è trattato di genocidio (il famoso massacro di Srebrenica), ma sempre di pulizia etnica si parla.


Parlando con gli anziani del posto seduti al bar di fronte alla moschea Karadjoz-Bey, la più grande della città, emerge un tristissimo episodio realmente accaduto: una mamma musulmana con un bambino di pochi mesi si era vista entrare in casa i soldati. Lei, disperata, non sapeva come far smettere di piangere il piccolo. Uno degli uomini in divisa, cercando di tranquillizzarla, le ha abbozzato un sorriso dicendole che ci avrebbe pensato lui. Lei, ingenua come tutte noi donne in fondo siamo, gli ha creduto. Il militare, dopo aver portato il neonato nell'altra stanza, gli ha sparato (forse in testa), poi l'ha riportato alla madre dicendo: "Ecco, ora non piange più". La crudeltà è da sempre insidiata dentro la divisa, ritenuta falsamente invincibile e dalla parte della ragione.


Trovandomi davanti questa vista appena sveglia, mi rendo conto che i veri proiettili non sono quelli visibili sui resti delle case, ma quelli invisibili che hanno lacerato l'anima di più generazioni, per una ragione che né Dio, né Allah approveranno mai.


1 commento:

  1. Un resoconto stupendo! Immaginiamo sempre la guerra come una cosa lontana, invece qui è un triste ricordo ancora molto vivo tra la gente!

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